da “il Giornalismo” – maggio 2020 – Un intervento di Marco Volpati che ricorda e illustra la figura, il ruolo e il peso politico-sindacale di Walter Tobagi.
“Nella storia del giornalismo in Italia sul finire del ‘900, Walter Tobagi ha un posto di primo piano. Non soltanto per la sciagurata azione criminale del gruppetto di apprendisti terroristi che lo assassinarono, ma anche e soprattutto perché ha lasciato un segno molto importante sia per le sue opere – articoli, saggi, libri di storia contemporanea – sia per le sue idee e riflessioni.
Un patrimonio prezioso per un mondo, quello dell’informazione, che oggi come allora è sotto attacco, messo in discussione e in pericolo, sfidato nella sua credibilità e autorevolezza, e perennemente alla ricerca di un ruolo adeguato ai tempi.
Come tutte le libertà, anche quella di stampa non è mai conquistata una volta per sempre; è decisivo che sia scritta nelle costituzioni e nelle leggi, ma questo ancora non basta. Tra gli anni ’70 e ’80 minavano la libertà effettiva di informazione il terrorismo, la mafia, e quei potentati economici e politici che preferiscono giornali asserviti, o timidi e subalterni. Oggi il panorama è diverso; viviamo tempi di battaglie contro le fake news e di aspro confronto tra l’informazione professionale e responsabile, e tutte le correnti torbide della marea immensa e indistinta della comunicazione individualistica, autoreferenziale, irresponsabile, spesso anonima.
Le idee e l’impegno di Tobagi appartengono non tanto ai giornalisti quanto alla società e alla cultura italiana. Come vedremo, in una scelta purtroppo limitata di suoi scritti e interventi, sono parte del patrimonio migliore della nostra storia recente.
Tobagi è stato un talento naturale, che poi è cresciuto in pochi anni grazie alla fatica di studiare, lavorare, ricercare. All’Università Statale di Milano si distinse per profondità e acume di studi di storia contemporanea; i suoi maestri di allora, Enrico De Cleva, Giorgio Rumi e Brunello Vigezzi, hanno confessato che si rammaricarono quando Walter, nel 1969, compì una scelta decisiva: abbracciare il mestiere di giornalista, e rinunciare ad una carriera universitaria che sarebbe stata sicuramente brillante.
La passione del giornale, il bisogno di approfondire la realtà contemporanea, interpretarla e spiegarla immediatamente era troppo forte. Da professionista dell’informazione continuò le sue indagini di storico, però come secondo mestiere. Tutto ebbe inizio al Liceo Parini di Milano. Tobagi era approdato lì perché vicino a casa sua, a Cusano Milanino nella periferia Nord della città, non c’era un liceo classico. E la sua inclinazione era per gli studi di quel filone. Walter era nato in Umbria, a Spoleto; suo padre era ferroviere. Il lavoro di papà Ulderico lo aveva portato a trasferirsi nel milanese, quando lui, unico figlio, aveva otto anni.Al Parini si pubblicava un giornale scolastico che poi divenne famoso per un processo che fece epoca, “La Zanzara”.
Prima ancora del caso – che scoppiò nel 1966 quando tre ragazzi del Parini, Marco Sassano, Claudia Beltramo Ceppi, e Marco De Poli pubblicarono una inchiesta sugli adolescenti e il sesso che scandalizzò molti e provocò un intervento della magistratura – Tobagi era un assiduo redattore del giornale di istituto. Aveva scritto su quello che gli allievi sapevano della Resistenza, intervistato Giorgio Bocca, scritto su ideali e aspettative dei liceali. E anche su sport e giornalismo sportivo. Lui che negli anni più maturi si specializzerà in politica, società, inchieste sul terrorismo, agli inizi dedicherà grande attenzione allo sport. Tanto che, dopo la maturità, esordirà con articoli che erano già un’attività di lavoro, su periodici di sport: MilanInter e il mensile Sciare. A vent’anni andrà a Grenoble alle Olimpiadi invernali come inviato. Alcune foto lo ritraggono accanto a campioni dell’epoca come Jean Claude Killy.
Versatile dunque, con il giornalismo nel DNA. Ma già nel 1969 Walter spicca il salto verso il giornalismo quotidiano. I suoi esordi sono nella redazione dell’Avanti! di Milano. A 22 anni lui è già un jolly: scrive anche qui di sport, poi affronta temi di politica internazionale, cronache e approfondimenti sulle manifestazioni studentesche. Il capo della redazione, Ugo Intini, sa che può affidargli qualsiasi tema.
Pochi mesi dopo, ancora nel 1969, passa all’Avvenire, il quotidiano cattolico diretto da Leonardo Valente. Tobagi è socialista e cristiano, non è il passaggio da un campo all’altro, ma una normale opportunità di lavoro. All’Avvenire rimane per tre anni, e spazia tra politica e cronaca, ultime fiammate di contestazione studentesca e primi episodi di terrorismo.
Arriva in via Solferino nel 1972, al Corriere di Informazione, quotidiano del pomeriggio. Scrive di temi sindacali, di cronaca, gli affidano anche gli editoriali, e segue da vicino la politica nazionale. Infine il Corriere della Sera nel 1976: politica, società, terrorismo. Gli chiedono anche qualche articolo di fondo, su argomenti un po’ ostici: lui è straordinario nel documentarsi e veloce nello scrivere.
Parlare del mestiere però non è sufficiente a dire chi è stato Tobagi. In via Solferino la sua maturità di giovane firma di prestigio attira, accanto a qualche inevitabile invidia, anche ammirazione e fiducia. Così entra nella rappresentanza sindacale, il cdr. E di lì viene naturale essere eletto nel direttivo del sindacato regionale, l’Associazione Lombarda dei Giornalisti. Con un gruppo di colleghi, tra i quali spicca Giorgio Santerini, avvia riflessioni sul mestiere, l’autonomia necessaria per esercitarlo, i rapporti difficili con la politica, i partiti che non rinunciano alla pretesa di rendere i sindacati, anche nei giornali, subalterni ai propri fini e alle proprie tattiche: la idea stucchevole della “cinghia di trasmissione”. E’ con queste idee di cambiamento che guida una iniziativa nuova – si chiamerà “Stampa Democratica” – che raccoglie adesioni ma suscita anche reazioni e risentimenti.
Nel maggio del 1980 quando viene assassinato in un agguato terroristico a pochi passi da casa sua dalla formazione 28 Marzo, Tobagi è il Presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti. Il volantino di rivendicazione dell’assassinio lo cita espressamente con la sua carica sindacale, e lo insulta definendolo “terrorista di Stato”.
L’atmosfera cupa di quegli anni di piombo prospettava spesso queste lacerazioni intollerabili. Furono centinaia le vittime di quella stagione sciagurata: da una parte le bombe, quasi sempre “nere” come in Piazza Fontana e alla Stazione di Bologna; dall’altra agguati, frequentemente mortali, che subirono poliziotti, carabinieri, guardie carcerarie, magistrati, dirigenti d’azienda, sindacalisti, esponenti politici, professori, e giornalisti.
Tobagi sul terrorismo e le sue radici più profonde rifletteva, studiava e scriveva. Famose sue interviste a fiancheggiatori dichiarati del terrorismo, incontrati in luoghi temibili dove le armi erano sui tavoli. Impressionante per profondità ciò che scrisse su due vittime colpite prima di lui: Carlo Casalegno e Emilio Alessandrini. Era un cronista-intellettuale, senza snobbismi e prosopopee, mite eppure determinato. Era un riformista, lontano dalla retorica e dall’aggressività tanto diffusa. In una relazione sindacale, dopo episodi incruenti che avevano preso di mira le istituzioni dei giornalisti per intimidirli, diceva: “Possiamo annoverare i terroristi tra quelli che si propongono di far tacere, o almeno intimorire, la stampa.
Sarebbe sciocco ignorare questa realtà, ma non possiamo nemmeno farci impaurire. Dev’essere chiaro che i giornalisti non vanno in cerca di medaglie, non ambiscono alla qualifica di eroi; però non accettano avvertimenti mafiosi”.
La risposta che concepiva era all’interno delle regole democratiche; quelle che sole così possono far vivere un sistema informativo libero. M.V.”