La polemica sull’art. 18 va avanti, e i giornalisti si comportano da spettatori, come se la cosa non li riguardasse. Invece tocca anche noi, come e più di altri, perché si rischia – più di quanto già accade oggi – la cacciata di quei giornalisti che non battono i tacchi e non rispondono signorsì ad editori e direttori.
Art.18: no al Jobs Act e al licenziamento libero
Potenziare ed estendere la tutela a tutti
Lavorare per un diritto al lavoro che veda centrale il contratto a tempo indeterminato
di Claudio Scarinzi
Negli ultimi due anni si sono persi – nel processo di deindustrializzazione dell’Italia – intorno a due milioni di posti di lavoro, la legge Fornero ha consentito a poco di più di 26 mesi dalla sua entrata in vigore qualcosa – in base a varie fonti – come oltre 39 mila licenziamenti individuali. L’introduzione della riforma da parte del governo Monti-Bersani, il leader Pd l’ha accettata pensando di andare al Governo con il senatore a vita, ha già in parte manomesso l’art.18 permettendo la rescissione del rapporto di lavoro per singolo dipendente per motivi economici sostituendo la reintegrazione con il risarcimento monetario in caso di illegittimità del provvedimento. E in più per tutte le altre tipologie di licenziamento è ora il giudice, in maniera arbitraria – non c’ è una regola -, a decidere se reintegrare o risarcire.
In questo quadro di mancanza di tutele drammatico il dibattito sull’art.18, o meglio sulla sua abolizione, ritorna in auge per la scellerata scelta di inserirlo nel Jobs Act del premier Matteo Renzi. E quindi ci tocca spiegare, ancora una volta, perché non solo l’art.18 è fondamentale – e dovrebbe essere potenziato ed esteso insieme alla abolizione della riforma Fornero – ma che le argomentazione per la sua rottamazione risultano strumentali e soprattutto false. Vedere la maggioranza Pd affermare che togliendo le tutele a chi le ha si elimina la disparità con chi non le ha ricorda la tragica vicenda in cui i parlamentari di Forza Italia hanno votato in Parlamento che Ruby Rubacuori era la nipote del presidente egiziano Mubarak. Il livello è questo e quindi, per punti, dobbiamo dimostrare le nostre buone ragioni.
Nel nostro Paese il licenziamento collettivo – come anche i giornalisti stanno sperimentando – è assai facile: la mobilità – che altro non è che una procedura di rescissione del rapporto di lavoro – viene concessa a piene mani agli imprenditori almeno dagli anni Novanta. Basta presentare un “prospetto” che motiva la riduzione di personale e l’Ufficio provinciale del Lavoro mette il suo timbro. Il solo limite è che l’azienda deve ridurre di almeno 5 unità in 6 mesi l’organico. Gli abusi sui prepensionamenti e in parte sulla solidarietà, parlando invece degli ammortizzatori, sono stati la regola, anche nella nostra categoria, se se ne vuole parlare con lucidità.
L’unica barriera è stato ed è – pur con mille limiti – il sindacato.
L’abolizione dell’art.18 ha come obbiettivo l’eliminazione di ogni diritto dei lavoratori – chiunque rivendichi qualcosa, per esempio il rispetto del contratto, potrà essere licenziato in cambio di una manciata di euro -, la marginalizzazione o addirittura l’eliminazione del sindacato sui luoghi di lavoro, la riduzione di fatto della retribuzione. La gerarchizzazione dei rapporti di lavoro fra i giornalisti impedirebbe nella realtà l’applicazione concreta della libertà di stampa. I redattori sono già sottoposti a mille pressioni dal potere economico e politico: tolti i vincoli di legge chi non si adegua sarebbe eliminato, magari perché la sua onestà professionale ha fatto perdere della pubblicità a un editore.
Non si comprende come si possa affermare che la riduzione delle tutele per tutti possa favorire un aumento dell’occupazione. È una tesi faticante.
Sembra doveroso chiarire:
1) L’art.18 tutela direttamente circa 8 milioni di lavoratori ma è il punto di riferimento anche per i licenziamenti nella Pubblica Amministrazione. Se la gran parte delle aziende italiane hanno meno di 15 lavoratori – tra l’altro la gran massa ne ha 3 ma non cresce pur non avendo la reintegrazione – è vero che la maggioranza dei dipendenti lavora in aziende medio-grandi. Quindi con lo Statuto dei Lavoratori pieno.
2) La reintegrazione esiste in tutta Europa dove peraltro c’è una cultura di tutela molto forte anche contro i licenziamenti discriminatori: esiste in Gran Bretagna, oh yes, per non parlare della Germania (dove l’industriale viene anche sanzionato civilisticamente e se persevera penalmente) e della Francia. Non esiste, salvo per la discriminazione, solo in Spagna.
3) Non c’è alcun rapporto fra politiche di “security”, cioè le indennità di licenziamento, il sussidio di disoccupazione, le politiche di formazione, e la possibilità di licenziare arbitrariamente. L’esempio sempre citato della flex-security della Danimarca è una barzelletta: ha meno abitanti del Veneto e un Pil bassissimo. Nei Paesi industrializzati lo Stato non consente di scaricare sulla collettività le riduzioni di personale non motivate e fuori da una rigida regolamentazione. E comunque quand’anche – e così non è – in Europa non vi fossero tutele perché mai si dovrebbe accettare un sistema sbagliato?
4) Non c’è alcuna relazione fra licenziamenti liberi e aumenti dell’occupazione. Quest’ultima si può ottenere solo con una seria politica economica, con una adeguata programmazione, con investimenti infrastrutturali, con scelte neo-keynesiane, con riforme che riducano sprechi e illeciti e valorizzino la Pubblica Amministrazione.
5) L’abolizione dell’art.18 solo per i neo-assunti è chiaramente una trappola per spaccare chi si oppone allo scellerato Jobs Act. Ovviamente con il tempo l’eliminazione avverrebbe per tutti e subito per chi cambia, volente o no, il lavoro. Risultano pertanto fragilissimi i tentativi di mediazione della minoranza Pd – responsabile invece di non aver fatto niente contro la legge Fornero – che hanno fiato cortissimo.
6) Il poter licenziare ad nutum, a un cenno come dicono i giuristi con retaggi del latino, renderebbe il lavoro manuale schiavistico e quello intellettuale servile. E danneggerebbe anche le figure manageriali tutelate da forti indennità proprio perché licenziabili. Indennità che non avrebbero più senso.
7) È ridicolo sostenere che l’art.18 riguardi solo 1.000-1.500 contenziosi l’anno prima della legge Fornero e 4.500 ora la gran parte di questi ultimi risolti con un risarcimento. I “pochi” (pensiamo alla tensione di chi è stato licenziato illegittimamente) contenziosi ante-Fornero dimostrano che la legge era una barriera più che utile. I risarcimenti di oggi sono semplicemente dovuti al fatto che la norma stessa non consente reintegrazione per i licenziamenti economici a meno che non se dimostri non l’illegittimità ma la nullità (cosa assi difficile, come si fa ad accertare che un datore di lavoro licenzia un dipendente perché è ammalato?)
8) Gli attuali sussidi – disoccupazione, mobilità, cassa integrazione – sono già bassissimi. Come potrebbe lo Stato coprire efficacemente i costi derivanti da un indiscriminato aumento dei disoccupati?
9) Nessuno è contrario, prima di tutto i sindacati, a tutele e sussidi per tutti i lavoratori, dipendenti, parasubordinati, atipici, autonomi. Un buon welfare ha senso solo così, ma richiede anche politiche per l’occupazione e coperture finanziarie ben più che giuste ma al momento difficili da reperire.
10) Gli effetti sulla nostra categoria sarebbero devastanti: nelle redazioni piccole e medie i licenziamenti aumenterebbero a dismisura, ma anche nei grandi giornali la situazione sarebbe dura per tutti.
Cosa fare quindi per opporsi alla riforma? E soprattutto cosa possono fare i giornalisti e il sindacato?
La prima considerazione è che questa è una battaglia di lungo, lunghissimo periodo (lo stesso sciopero generale, ventilato dalla Cgil e dalla Fiom rischia di “chiudere” la vertenza). Da parte nostra dobbiamo prepararci a una mobilitazione in tutti i luoghi di lavoro: i Cdr possono convocare una pluralità di assemblee per discuterne, informare i colleghi, prepararsi a contrapporsi all’abolizione o alla ulteriore modifica dell’articolo 18. Stampa Democratica e l’Associazione lombarda dei giornalisti sono compatte nella difesa dello Statuto dei lavoratori. Dobbiamo fare uscire il massimo numero di articoli su quotidiani, tv, periodici, radio e internet sull’argomento per contrastare la disinformazione. E chiedere una discesa in campo netta della Fnsi che, a dire il vero, è stata per ora assai assente anche sulla legge Fornero. Ognuno di noi deve partecipare in prima persona alla battaglia per la dignità e la pienezza del diritto al lavoro. Non è importante una fase specifica, dobbiamo ragionare guardando anche a 10 o a 20 anni. Quella che al momento non si sta combattendo è una guerra fondamentale per il futuro dei giornalisti e dei lavoratori. Per la libertà di stampa, per la dignità. Ma guardando più in generale varie normative sul lavoro – il contratto non è sufficiente – dovrebbero essere o abolite o modificate radicalmente: pacchetto Treu (i famigerati cococo), legge Biagi, collegato Lavoro, cessione del ramo d’impresa (ora una azienda, pensiamo al Sole 24ore con Bussiness Week, può vendere una parte non precostituita ma creata al momento), normativa sui contratti a termine e così via. Bisogna rifondare un diritto del lavoro che veda il contratto a tempo indeterminato come centrale e tutte le altre tipologie come una eccezione o una deroga temporanea per un vero inserimento definitivo.